Così iniziano le “Memorie” di Lucia:
«Ho avuto coscienza delle mie azioni fin dalle braccia materne. Ricordo quando ero cullata e mi addormentavo al suono di vari canti. La prima cosa che imparai fu l’Ave Maria perché mia madre era solita tenermi in braccio mentre insegnava il catechismo a mia sorella Carolina, cinque anni più grande di me.
Quando compii sei anni mia madre pensò che potessi fare la Prima Comunione. La mia gioia non può essere spiegata. Finalmente giunse il giorno stabilito. Quando il sacerdote venne a distribuire il Pane degli Angeli sembrava che il cuore mi volesse saltare fuori dal petto. Ma appena l’Ostia divina si posò sulla mia lingua sentii una serenità ed una pace inalterabili, sentii che mi invadeva una atmosfera così soprannaturale, che la presenza del nostro Buon Dio mi diventava sensibile come se Lo vedessi e sentissi con i sensi del mio corpo. Feci allora le mie suppliche: «Signore! Fammi santa, conserva il mio cuore sempre puro, soltanto per Te». In quel momento, mi sembrò che il Buon Dio mi dicesse nel profondo del mio cuore, queste chiare parole: «La grazia che oggi ti è concessa continuerà viva nella tua anima, producendo frutti di vita eterna».
Mi sentii così sazia del Pane degli Angeli che mi fu impossibile, per un bel po', mangiare qualsiasi cosa. Persi, da quel momento, il piacere e l'attrattiva che cominciavo a sentire per le cose del mondo, e mi sentivo bene soltanto in qualche luogo solitario, dove potessi, tutta sola, ricordare le delizie della mia Prima Comunione.

Prima dei fatti del 1917, eccetto i legami di parentela che ci univano, nessun altro affetto particolare mi faceva preferire la compagnia di Giacinta e Francesco a quella di qualsiasi altro bambino.
Non so perché, ma Giacinta e il suo fratellino Francesco avevano per me una predilezione speciale e mi cercavano, quasi sempre, per giocare. Non sentivano piacere nella compagnia degli altri bambini, e mi chiedevano di andare con loro vicino ad un pozzo, che i miei genitori avevano in fondo all'orto. Arrivati lì, Giacinta sceglieva i giochi con cui ci intrattenevamo.

Mia madre era solita, dopo cena, narrarci delle storie: la storia della Passione, di San Giovanni Battista, delle apparizioni di Lourdes. Io sapevo quindi la Passione del Signore a modo d'una fiaba, e cominciai a raccontare ai miei cuginetti, dettagliatamente, la storia del Signore, come io la chiamavo. Sentendo raccontare le sofferenze di Nostro Signore, Giacinta si commuoveva fino alle lacrime. Molte volte, in seguito, ella mi chiese di raccontarle nuovamente la storia della Passione. Piangeva afflitta e diceva: «Povero Nostro Signore. Io non farò mai alcun peccato. Non voglio che Nostro Signore soffra ancora di più».

Frattanto io ero arrivata all'età, decisa da mia madre, per inviare i suoi figli a guardare il gregge. Mia sorella Carolina aveva dodici anni ed era necessario che cominciasse a lavorare. E' per questo motivo che mia madre affidò a me la responsabilità del nostro gregge. Benché fossero ancora molto piccoli, mia zia affidò a Francesco e a Giacinta la custodia delle sue pecore. Ricordo che essi vennero da me scoppiando di allegria per comunicarmi la notizia e per accordarsi con me sul come riunire ogni giorno le nostre greggi. Si decise che ognuno si sarebbe avviato con il suo all'ora indicata da sua madre, ed il primo uscito avrebbe atteso l'altro al "Borreiro": è così che noi chiamavamo un piccolo stagno che si trovava nella zona infossata della montagna. Una volta riuniti, stabilivamo quale sarebbe stato il pascolo del giorno, e vi andavamo contenti e gioiosi come se andassimo ad una festa.

Ci eravamo guadagnata la confidenza delle pecore a forza di distribuire loro le nostre merende e così, quando arrivavamo al pascolo, potevamo giocare in tutta tranquillità, sicuri che esse non si sarebbero allontanate da noi. Giacinta amava tanto prendere gli agnellini bianchi e sedersi tenendoli sulle ginocchia, carezzarli e, alla sera, portarli tra le braccia fino a casa perché non si stancassero. Un giorno, rientrando, si mise al centro del gregge: «Giacinta, le chiesi, perché cammini in mezzo alle pecore?»
«E' per fare come Nostro Signore che, su questa immagine che mi è stata data, è in mezzo a molte pecore e ne porta una tra le braccia».

Giacinta amava molto sentire l'eco in fondo alla valle. E, per questo motivo, uno dei nostri grandi divertimenti consisteva nel sederci in cima alle colline, sulla roccia più alta, e nel pronunciare ad alta voce delle parole. Il nome che rimandava la migliore eco era quello di MARIA.
Giacinta diceva anche, qualche volta, tutta l'Ave Maria, aspettando, per pronunciare ogni parola, che la precedente avesse finito di fare eco.
Amavamo anche intonare dei canti. A tutti i canti profani, e noi sfortunatamente ne sapevamo diversi, Giacinta preferiva il Salve, Nobile Signora, Vergin pura, Angeli, cantate con me.
Intanto che andavamo così per i monti, ciò che maggiormente piaceva a Francesco era di sedersi sulla pietra più alta per suonare il piffero o per cantare.
Se la sua sorellina e io ce ne andavamo scendendo di corsa per i pendii, lui restava seduto, tutto preso dalla sua musica e dai suoi canti.

Giacinta amava molto, verso l'imbrunire, andare su un'aia che noi avevamo dirimpetto alla casa per vedere, da lì, il tramonto del sole e, in seguito, il cielo che si costellava di stelle. Le belle notti di chiaro di luna l'entusiasmavano. Noi discutevamo, allora, per sapere chi di noi fosse capace di contare più stelle che, dicevamo, erano le lucerne degli angeli. La luna era quella della S. Vergine e il sole quella di Nostro Signore. E' per questo che Giacinta diceva talvolta: «Io amo di più la lucerna di Nostra Signora che non ci brucia e non ci abbaglia come quella di Nostro Signore».
Francesco veniva a giocare con noi sulla vecchia aia, mentre noi aspettavamo che la S. Vergine e gli Angeli accendessero le loro lucerne. Anch'egli si entusiasmava a contarle, ma niente lo incantava di più di una bella aurora o di un tramonto. Fin quando si vedeva ancora un raggio di sole, non si curava di vedere se già ci fosse qualche lucerna accesa. «Nessuna stella è così bella come quella di Nostro Signore», diceva a Giacinta che preferiva quella della S. Vergine perché, spiegava, non fa male agli occhi.
E, entusiasta, egli seguiva con lo sguardo tutti i raggi che, proiettati sui vetri delle case dei villaggi vicini o sulle gocce d'acqua sparse sugli alberi o sui cespugli della montagna, li facevano brillare come tante altre stelle, mille volte più belle, ai suoi occhi, di quelle degli angeli. Quando non c'era il chiaro di luna, noi dicevamo che la lampada di Nostra Signora era priva di olio.

Un bel giorno, noi eravamo con le nostre pecorelle in una proprietà dei miei genitori sulla collina detta Cabeço. Verso mezzogiorno si mise a cadere una piccola pioggia, fine più della rugiada. Avevamo valicato allora la collina, seguiti dalle nostre pecore, alla ricerca di una roccia che potesse servirci da rifugio. E avevamo trascorso lì la giornata, sebbene non piovesse più e il sole si fosse messo a brillare, chiaro e bello. Abbiamo mangiato le nostre colazioni e abbiamo recitato il nostro Rosario. Dopo aver terminato la nostra preghiera ci siamo messi a giocare con piccoli sassi. Era già passato qualche istante da quando ci eravamo messi a giocare quando, tutto ad un tratto, un forte vento si mise a scuotere gli alberi e ci fece alzare la testa per vedere ciò che accadeva, dal momento che fino ad allora il tempo era stato sereno. Noi abbiamo visto allora, attraverso l'oliveto, venire verso di noi un ragazzo di 14 o 15 anni, più bianco della neve, e che il sole rendeva trasparente come il cristallo. Era molto bello. Arrivando presso di noi, egli disse: «Non temete, io sono l'Angelo della Pace, pregate con me!» E inginocchiandosi, curvò la fronte fino a terra, e ci fece ripetere per tre volte queste parole: «Mio Dio! Io credo, adoro, spero e Vi amo. Vi chiedo perdono per tutti quelli che non credono, non adorano, non sperano e non Vi amano!». Poi, rialzandosi, disse: «Pregate così: I Cuori di Gesù e di Maria sono attenti alla voce della vostra preghiera». Le sue parole si impressero in tal modo nel nostro spirito, che non le abbiamo mai dimenticate.

Più tardi, un giorno d'estate, dopo aver fatto la siesta a casa, noi giocavamo vicino ad un pozzo che possedevano i miei genitori nel giardino e che noi chiamavamo Arneiro... Tutto ad un tratto abbiamo visto presso di noi la stessa immagine, o angelo, almeno mi sembra che era lo stesso, che ci disse: «Che fate? Pregate, pregate molto! I Santissimi Cuori di Gesù e di Maria hanno su di voi disegni di misericordia. Offrite costantemente all'Altissimo preghiere e sacrifici».
«In che modo dobbiamo fare sacrifici?» ho chiesto. «Di tutto ciò che potete, offrite a Dio un sacrificio, in atto di riparazione per i peccati che Lo offendono e di preghiera per la conversione dei peccatori. Attirerete così la Pace sulla vostra Patria. Io sono il suo Angelo Custode, l'Angelo del Portogallo. Soprattutto accettate e sopportate con sottomissione le sofferenze che il Signore vi invierà».
Prima di scomparire l'Angelo chiarì meglio il suo invito alla penitenza e ai fioretti: «I fioretti dei fanciulli sono cari al Signore: sono potenti per la conversione dei cattivi».
Queste parole dell'Angelo si impressero nel nostro spirito come una luce che ci faceva comprendere chi fosse Dio, quanto ci amasse e volesse essere amato, il valore del sacrificio, sino a che punto questo Gli fosse gradito e come, attraverso di esso, Egli convertisse i peccatori. E' per questo che, a partire da questo momento, abbiamo cominciato ad offrire a Dio tutto ciò che ci mortificava, senza affannarci tuttavia a cercare altre penitenze o sacrifici, eccetto quello di passare ore ed ore prostrati a terra ripetendo le preghiere dell'Angelo.

Francesco, nella seconda apparizione dell'Angelo, dopo i primi momenti, mi domandò: «Tu hai parlato con l'Angelo: cosa t'ha detto?» «Non hai sentito?» «No. Ho visto che parlava con te; ho sentito quel che gli hai detto tu, ma quel che ti ha detto lui non lo so». Gli raccontai allora tutto quello che l'Angelo aveva detto nella prima e nella seconda apparizione.

Trascorse ancora un bel pezzo di tempo. Un giorno portammo a pascolare le nostre greggi su una proprietà dei miei genitori, un oliveto che chiamavamo Pregueira, situato sul versante del monte Cabeço, già citato, un po' al di sopra dei Valinhos. Dopo aver fatto merenda, avevamo stabilito di andare a pregare nella grotta che si trova dall'altro lato della collina. Appena arrivati, in ginocchio e con la fronte a terra, avevamo cominciato a ridire la preghiera dell'Angelo: «Mio Dio, io credo, adoro, spero e Vi amo...». Non so quante volte avevamo ripetuto questa preghiera, quando ci siamo accorti che brillava su di noi una luce inesplicabile. Raddrizzandoci per vedere che cosa accadesse abbiamo visto l'Angelo, che teneva nella mano sinistra un calice, al di sopra del quale era sospesa un'Ostia, ed alcune gocce di Sangue cadevano dall'Ostia nel calice.
L'Angelo lasciò il calice sospeso nell'aria, si inginocchiò vicino a noi e ci fece ripetere tre volte: «Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, Vi adoro profondamente e Vi offro il Preziosissimo Corpo, Sangue, Anima e Divinità di Gesù Cristo presente in tutti i tabernacoli del mondo, in riparazione delle offese, sacrilegi e indifferenze con i quali Egli stesso è offeso. E per i meriti infiniti del Suo Santissimo Cuore e del Cuore Immacolato di Maria, Vi domando la conversione dei poveri peccatori».

Dopo aver pregato e averci fatto ripetere tre volte la stessa preghiera, l'Angelo si alzò e, prendendo nelle sue mani il calice e l'Ostia, a me diede l'Ostia consacrata e divise il Sangue del calice tra Giacinta e Francesco, dicendo nello stesso tempo: «Prendete e bevete il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, orribilmente offeso dagli uomini ingrati. Riparate i loro crimini e consolate il vostro Dio». Poi, prostrandosi nuovamente a terra, ripetè con noi, ancora tre volte, la stessa preghiera: «Santissima Trinità…» e scomparve.
Noi abbiamo conservato a lungo la stessa posizione, ripetendo sempre le stesse parole e quando ci siamo alzati, abbiamo visto che scendeva la notte e che era, di conseguenza, l'ora di rientrare a casa.

Nei giorni seguenti la forza della presenza di Dio in noi era tanto intensa che ci assorbiva e ci annientava quasi completamente: sembrò, per lungo tempo, che ci privasse perfino dell'uso dei nostri sensi...; la pace e la felicità che sentivamo erano grandi, ma tutte intime: l'anima completamente concentrata in Dio. Anche la debolezza psichica che ci abbatteva era grande.
Quando, dopo alcuni giorni, tornammo allo stato normale, Francesco domandò: «L'Angelo a te ha dato la Santa Comunione, ma a me e a Giacinta cosa ha dato?» «La Santa Comunione anche a noi - rispose Giacinta con una felicità indescrivibile - non hai visto che era il Sangue che cadeva dall'Ostia?» «Io sentivo che Dio era in me, ma non sapevo come era!» disse Francesco.
Poco a poco quell'atmosfera passò e tornammo a giocare quasi con lo stesso slancio e la stessa libertà di prima.

Il 13 maggio 1917, stavo giocando con Giacinta e Francesco in cima alla collina della Cova da lria (nel luogo dove si trova ora la Basilica); ci divertivamo a costruire un piccolo muro attorno a un cespuglio quando, tutto ad un tratto, vedemmo come un lampo. Io dissi ai miei cugini: «Sarebbe meglio che rientrassimo tutti a casa perché ci sono i lampi e può venire un temporale». «Si, andiamo».

Cominciammo a discendere il pendio, conducendo le nostre pecore verso la strada. Arrivati a metà del declivio, al di là di un grande leccio vedemmo un lampo e, fatti alcuni passi, scorgemmo su di un piccolo leccio una Signora vestita di bianco, più splendente del sole, che diffondeva una luce più chiara e intensa di un bicchiere di cristallo pieno d'acqua attraversato dai raggi del sole più ardente. Ci fermammo, sorpresi per l'apparizione. Le eravamo così vicini da essere dentro la luce che La circondava, o che Lei diffondeva: forse a un metro e mezzo di distanza. Allora la Madonna ci disse: «Non abbiate paura, non vi farò alcun male».
«Da dove venite?», le domandai. «Vengo dal Cielo». «E che volete da me?» «Sono venuta a chiedervi di venire qui per sei mesi consecutivi, il giorno 13, a questa stessa ora: in seguito vi dirò chi sono e cosa voglio. Tornerò, poi, ancora una settima volta». «Anch'io andrò in Cielo?» «Si, ci andrai». «E Giacinta?» «Anche lei». «E Francesco?» «Anche lui, ma deve recitare molti Rosari».

Mi ricordai allora di chiederLe di due ragazze che erano morte da poco tempo. Erano mie amiche e venivano a casa mia per imparare a fare le tessitrici con la mia sorella maggiore: «Maria das Neves è già in Cielo?» «Si, è in Cielo». «E Amelia?» «Resterà in Purgatorio fino alla fine del mondo».
Poi disse: «Volete offrirvi a Dio per sopportare tutte le sofferenze che Egli vorrà inviarvi, in atto di riparazione per i peccati con i quali Egli è offeso e di supplica per la conversione dei peccatori?» «Sì, lo vogliamo». «Allora, soffrirete molto, ma la grazia di Dio sarà il vostro conforto».
Fu mentre pronunciava queste ultime parole che aprì per la prima volta le mani, comunicandoci una luce così intensa, una specie di riflesso che usciva e ci penetrava nel petto e nel più intimo dell'anima, facendoci vedere noi stessi in Dio, che era quella luce, più chiaramente di come ci vediamo nel migliore degli specchi. Allora, per un impulso intimo anch'esso comunicatoci, cademmo in ginocchio, e ripetemmo intimamente: «Santissima Trinità, io Vi adoro. Mio Dio, mio Dio, io Vi amo nel Santissimo Sacramento». Passati i primi momenti, la Madonna aggiunse: «Recitate il Rosario tutti i giorni per ottenere la pace nel mondo e la fine della guerra». Poi cominciò ad elevarsi dolcemente, salendo in direzione dell'oriente, fino a sparire nell'immensità dello spazio

Fu Giacinta che, non potendo contenere una così grande gioia, ruppe il nostro accordo di non parlarne a nessuno. Quello stesso pomeriggio, quando, presi dalla sorpresa, noi ce ne stavamo pensosi, Giacinta, improvvisamente, esclamò con entusiasmo: «Ma quella bella Signora!» «Io vedo già che tu stai per dirlo a qualcuno», le dissi. «No, non lo dirò sta tranquilla», rispose.
Il giorno seguente, quando suo fratello venne a dirmi che ella aveva parlato, la sera della vigilia, a casa, Giacinta ascoltò l'accusa senza dire niente.
«Vedi? E' vero ciò che mi sembrava», le dissi. «C'era qualcosa qui dentro che mi impediva di tacere», rispose con le lacrime agli occhi. «Ora non piangere e non dire più niente a nessuno di ciò che questa Signora ci ha detto». «Ma io l'ho già detto!» «Che cosa hai detto?» «Ho detto che la Signora ci ha promesso di portarci in Cielo». «E subito tu sei andata a ripetere questo!» «Perdonami. Non dirò più niente a nessuno».
Il giorno seguente alla prima apparizione, quando arrivammo al pascolo, Giacinta si sedette su una pietra, pensierosa. «Giacinta, vieni a giocare » le dicemmo. «Oggi non ho voglia di giocare». «Perché non vuoi giocare?» «Perché ho riflettuto: quella Signora ci ha detto di recitare il Rosario. Ora, quando reciteremo il Rosario, dovremo dire l'Ave e il Padre Nostro per intero». Iniziammo così da quel giorno a recitare il Rosario in maniera completa.

Il 13 giugno si celebrava nella nostra parrocchia la festa di S. Antonio. Mia madre e le mie sorelle, che sapevano quanto mi piacessero le feste, mi dissero: «Vogliamo proprio vedere se tu lasci la festa per andare alla Cova d'Iria, per parlare con quella Signora!», e mantennero il loro atteggiamento di disprezzo, che davvero mi feriva di più e che mi costava tanto come gli insulti. Verso le undici uscii di casa, passai dai miei zii dove Giacinta e Francesco mi aspettavano, ed eccoci in cammino verso la Cova d'Iria, nell'attesa del momento sospirato. Quel giorno io mi sentivo addoloratissima. Quel giorno, forse proprio per questo, la Signora mi disse di non scoraggiarmi perché Lei non mi avrebbe mai abbandonata. Dopo aver recitato il Rosario con Giacinta e Francesco e le altre persone presenti, vedemmo di nuovo il riflesso di luce che si avvicinava (quello che chiamavamo lampo), e subito dopo la Madonna apparve sul leccio, tutto come a maggio.
«Cosa volete da me?» domandai. «Voglio che veniate qui il 13 del prossimo mese, che diciate il Rosario tutti i giorni e che impariate a leggere. Poi vi dirò quel che voglio».
Domandai la guarigione di un malato: «Se si converte, guarirà entro l'anno».
«Vorrei chiederVi di portarci in Cielo». «Si, Giacinta e Francesco li porterò presto, ma tu resterai qui ancora per qualche tempo. Gesù vuole servirsi di te per farMi conoscere e amare. Vuole stabilire nel mondo la devozione al Mio Cuore Immacolato».
«Resterò qui sola?» domandai addolorata. «No, figlia mia. E tu ne soffri molto? Non ti scoraggiare. Io non ti abbandonerò mai. Il Mio Cuore Immacolato sarà il tuo rifugio e il cammino che ti condurrà fino a Dio».

Fu nel pronunciare queste ultime parole che aprì le mani e ci comunicò, per la seconda volta, il riflesso di quella luce immensa, nella quale ci vedevamo come immersi in Dio. Giacinta e Francesco sembravano stare in quella parte di luce che si alzava verso il cielo, io in quella che si diffondeva sulla terra. Davanti alla palma della mano destra della Madonna c'era un cuore coronato di spine che vi sembravano confitte. Capimmo che era il Cuore Immacolato di Maria, oltraggiato dai peccati dell'umanità, che voleva riparazione.
Nel frattempo, la notizia delle apparizioni si era sparsa. Mia madre voleva, a tutti i costi, che io dicessi che erano tutte bugie. Non risparmiò, a tal fine, carezze, minacce e neppure il manico della scopa.
Ella si tormentava sempre di più per lo sviluppo degli avvenimenti, e impiegò dunque un espediente migliore per obbligarmi a confessare che avevo mentito. Un mattino mi chiamò e mi disse che mi avrebbe portata dal signor Parroco: «Quando sarai lì, ti metterai in ginocchio, gli dirai che hai mentito e gli chiederai perdono».
Passando davanti alla casa di mia zia, mia madre entrò per qualche minuto. Approfittai dell'occasione per raccontare a Giacinta ciò che accadeva. Vedendomi afflitta, ella lasciò scorrere qualche lacrima e mi disse: «Mi alzerò presto e andrò a chiamare Francesco. Andremo presso il tuo pozzo per pregare. Quando tornerai, vieni a raggiungerci».

Ritornando, corsi al pozzo, ed essi erano lì, tutti e due, in ginocchio, a pregare. Appena mi videro, Giacinta corse ad abbracciarmi e mi domandò in che modo avessi agito. Io lo raccontai. In seguito ella mi disse: «Vedi? Noi non dobbiamo aver paura di niente. Questa Signora ci aiuterà sempre. E' talmente nostra amica!».

Un giorno tre signori vennero a parlarci. Dopo il loro interrogatorio, ben poco piacevole, ci lasciarono dicendo: «Vedete se vi decidete a dire questo segreto, altrimenti il signor Amministratore è deciso a metter fine ai vostri giorni». Giacinta, lasciando trasparire la gioia sul suo viso, disse: «Ma che gioia! Amo tanto Nostro Signore e Nostra Signora, e così noi andremo a vederli presto!».
Essendosi sparsa la voce, che effettivamente l'Amministratore voleva ucciderci, una mia zia, sposata a Casais, venne da noi con l'intenzione di portarci nella sua casa perché, diceva, «io vivo in un altro cantone (regione) e questo Amministratore non potrà venire a cercarvi». Ma il suo progetto non si realizzò perché noi non volemmo partire e rispondemmo: «Se ci uccide, non fa niente. Andremo in Cielo!».

Passarono i giorni ed il 13 luglio, pochi minuti dopo che eravamo giunti alla Cova d'Iria, presso il leccio, tra la numerosa folla, mentre dicevamo il Rosario, vedemmo il riflesso della solita luce e subito dopo la Madonna sul leccio.
«Che cosa volete da me?» domandai. «Voglio che veniate qui il 13 del mese prossimo, che continuiate a dire il Rosario tutti i giorni alla Madonna del Rosario, per ottenere la pace del mondo e la fine della guerra, perché soltanto Lei vi potrà soccorrere».
«Vorrei chiederVi di dirci chi siete; e di fare un miracolo perché tutti credano che siete Voi che ci apparite». «Continuate a venire qui tutti i mesi. A ottobre dirò chi sono, quel che voglio e farò un miracolo che tutti potranno vedere bene per credere». E continuò: «Sacrificatevi per i peccatori, e dite molte volte, specialmente ogni volta che fate qualche sacrificio: O Gesù, per amor Vostro, per la conversione dei peccatori e in riparazione dei peccati commessi contro il Cuore Immacolato di Maria!»
Dicendo queste ultime parole, aprì di nuovo le mani, come nei due mesi precedenti. Sembrò che il riflesso penetrasse la terra e vedemmo come un grande mare di fuoco che sembrava trovarsi sulla terra. Immersi in questo fuoco c'erano demoni e anime che sembravano tizzoni trasparenti, alcuni neri o bronzei in forme umane, portati intorno dalle fiamme che uscivano da essi insieme a nuvole di fumo. Essi cadevano da tutte le parti, proprio come le scintille di un grande incendio, senza peso né equilibrio, tra grida e gemiti di dolore e di disperazione, che ci atterrivano fino a farci tremare di spavento. I demoni si distinguevano per le loro forme orribili e schifose di animali mostruosi e sconosciuti, ma trasparenti e neri come carboni tra la bracia.
Atterriti e come per supplicare aiuto, alzammo gli occhi verso Nostra Signora, la quale ci disse con gentilezza, ma anche con tristezza: «Voi avete visto l'inferno, dove vanno le anime dei poveri peccatori. Per salvarli Dio vuole istituire nel mondo la devozione al mio Cuore Immacolato. Se essi (gli uomini) faranno ci che vi dico, molte anime saranno salvate e si avrà la pace; la guerra sta per finire. Ma se gli uomini non cessano di offendere Dio, ne comincerà un'altra, ancora peggiore, sotto il pontificato di Pio XI. Quando voi vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che è il grande segnale che Dio vi darà, che prossima è la punizione del mondo per i suoi crimini, attraverso la guerra, la fame e le persecuzioni contro la Chiesa e il Santo Padre. Per impedire questo, chiederò la consacrazione della Russia al mio Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice dei primi sabati. Se si aderirà alle mie richieste, la Russia si convertirà e si avrà la pace. Altrimenti, essa diffonderà i suoi errori nel mondo, provocando guerre e persecuzioni contro la Chiesa; i buoni saranno martirizzati, il Santo Padre soffrirà molto, molte nazioni saranno annientate. Alla fine, il mio Cuore Immacolato trionferà, il Santo Padre mi consacrerà la Russia che si convertirà e sarà concesso al mondo un lungo periodo di pace».

Durante l'apparizione la Madonna ci confidò un segreto con espresso divieto di rivelarlo ad alcuno. Alla fine dell'apparizione la folla si precipitò su di noi, tempestandoci di domande che io cercavo di soddisfare come potevo; mi chiese anche perché ad un tratto ero diventata tanto triste. Risposi che era un segreto.

Dopo questa apparizione Giacinta spesso cominciava a dire: «Molte anime vanno all'inferno! E di là non si esce più?» «No!»
«E dopo molti, molti anni?» «No! L'inferno non finisce mai!»
«E neanche il paradiso?» «Non vedi che sono eterni, che non finiscono mai?». Facevamo spesso la meditazione sull'inferno e sull'eternità. La visione dell'inferno ci aveva suscitato un tale orrore che tutte le penitenze e mortificazioni ci sembravano niente per riuscire a liberarne qualche anima. Giacinta spesso si sedeva per terra o su di una pietra e, pensierosa, cominciava a dire: «L'inferno! L'inferno! Che pena ho delle anime che vanno all'inferno, di quelle persone che, viventi, vi bruciano come legna nel fuoco!»
E, tremando, si inginocchiava, con le mani giunte, e ripeteva la preghiera che la Santa Vergine ci aveva insegnata: “O mio Gesù, perdona le nostre colpe, preservaci dal fuoco dell'inferno, porta in cielo tutte le anime, specialmente quelle più bisognose della tua misericordia”.

Di tanto in tanto, ella chiamava me o suo fratello, come se si svegliasse da un sogno: «Francesco! Francesco! Pregherete voi con me? Bisogna pregare molto, per liberare le anime dall'inferno. Ce ne vanno tante! Che pena ho dei peccatori! Se potessi mostrar loro l'inferno!».
A volte ella si stringeva d'improvviso a me, dicendo: «Io andrò in Cielo, ma tu devi restare qui: se Nostra Signora ti lascia, dì a tutti come è l'inferno, perché non facciano più peccati e perché non ci vadano».
Quando la vedevo molto pensierosa, le domandavo: «Giacinta, a che pensi?» Non poche volte rispondeva: «Alla guerra che verrà, a tanta gente che dovrà morire e andare all'inferno! Che tristezza! Se smettessero di offendere Dio, non verrebbe la guerra, né andrebbero all'inferno».

In seguito due sacerdoti vennero ad interrogarci e ci raccomandarono di pregare per il Santo Padre. Giacinta chiese chi era il Santo Padre e i buoni sacerdoti ci spiegarono chi fosse e perché aveva bisogno che si pregasse per lui. Dopo Giacinta provò tanto amore per il Santo Padre che, mentre offriva i suoi sacrifici a Gesù, aggiungeva sempre: «... e per il Santo Padre».
Terminando il Rosario aggiungeva sempre anche tre Ave Maria per lui. E qualche volta diceva: «Come vorrei vedere il Santo Padre! Viene qui tanta gente, e il Santo Padre non viene mai». Nel suo candore infantile, pensava che il Sommo Pontefice potesse fare questo viaggio come qualsiasi altra persona.

Un giorno noi eravamo andati a fare la siesta vicino al pozzo dei miei genitori. Giacinta si era seduta sull'orlo del pozzo, mentre Francesco era venuto con me a cercare il miele selvatico nei cespugli di una ripa vicina. Un po' più tardi, Giacinta mi chiamò: «Hai visto il Santo Padre?» «No». «Non so ciò che accaduto. Ho visto il Santo Padre in una grandissima casa, in ginocchio, davanti ad un tavolo, piangendo, con il viso tra le mani. Fuori della casa c'era molta gente; alcuni gli lanciavano pietre, altri gli rivolgevano delle imprecazioni e dicevano parole molto volgari. Povero Santo Padre! Dobbiamo pregare molto per lui!»

In un’altra occasione, andammo alla grotta del Cabeço. Ci prostrammo per terra a dire le preghiere dell'Angelo. Dopo un po', Giacinta si alzò e mi chiamò: «Non vedi tante strade, tanti sentieri e campi pieni di persone che piangono di fame e non hanno niente da mangiare? E il Santo Padre in una chiesa, davanti al Cuore Immacolato di Maria, in preghiera? E tanta gente in preghiera con Lui?!».
Da allora non offrimmo a Dio nessuna preghiera o sacrificio, a cui non aggiungessimo una supplica per Sua Santità e cominciammo ad avere un amore tanto grande per il Santo Padre.

Frattanto, sorse l'alba del 13 agosto. La gente arrivava da ogni parte, fin dal giorno prima. Tutti volevano vederci, interrogarci e farci le loro richieste, perché noi le trasmettessimo alla Santissima Vergine. In mattinata giunse un ordine del sindaco, di andare a casa della zia, che là mi aspettava lui. Mio padre ricevette l'ordine, e là mi condusse. Quando arrivammo, lui stava in una stanza con i miei cugini. Ci interrogò e fece nuovi tentativi per obbligarci a rivelare il segreto ed a promettere che non saremmo tornati alla Cova d'Iria. Non ottenendo nessun risultato, ordinò a mio padre e a mio zio di portarci a casa del parroco. Di qui ci fece poi salire sulla sua carrozza, dicendo che ci avrebbe portato alla Cova, e invece ci condusse con lui a Vila Nova de Ourem, dove era la sua abitazione e il palazzo del governo con le carceri. Ci tenne un po' a casa sua, cercando con nuovi interrogatori, con promesse e con minacce di strapparci il segreto. Vedendo inutile ogni tentativo, ci fece rinchiudere nella prigione.
Mentre eravamo prigionieri, ciò che più costò a Giacinta fu l'abbandono dei nostri genitori. Ella diceva, con il viso in lacrime: «Nè i miei genitori, nè i tuoi sono venuti a vederci. Non si occupano di noi!» «Non piangere, le disse Francesco, offriamo questo a Gesù per i peccatori». E, levando gli occhi e le sue piccole mani al Cielo, fece l'offerta: «O Gesù mio, è per amor vostro e per la conversione dei peccatori». Giacinta aggiunse: «E anche per il Santo Padre e in riparazione dei peccati commessi contro il Cuore Immacolato di Maria».
Quando, dopo averci separati, ci riunirono di nuovo in una camera della prigione dicendoci che sarebbero venuti presto a cercarci per farci friggere, Giacinta si ritirò presso una finestra che guardava sul campo del mercato delle bestie. Io pensavo che ella si distraesse a guardare fuori, ma non tardai ad accorgermi che piangeva.
Andai a cercarla e, avvicinandola a me, le chiesi perché piangesse: «Perché, disse, moriremo senza vedere i nostri genitori», e le lacrime scorrevano sul suo viso. «Vorrei almeno, aggiunse, rivedere mia madre!» «Allora tu non vuoi offrire questo sacrificio per la conversione dei peccatori?» «Si, si, lo voglio!», e con le guance bagnate di lacrime e gli occhi rivolti al cielo fece la sua offerta: «O mio Gesù! E' per Vostro amore, per la conversione dei peccatori, per il Santo Padre e in riparazione dei peccati commessi contro il Cuore Immacolato di Maria!».

I prigionieri che assistevano a questa scena vollero consolarci: «Ma su, dite all'Amministratore questo segreto! Che cosa vi importa che questa Signora non lo voglia?» «Ah! questo no - replicò vivamente Giacinta - preferisco piuttosto morire».
Decidemmo allora di recitare il nostro Rosario. Giacinta estrasse una medaglia che portava al collo, chiese a uno dei prigionieri di appenderla ad un chiodo fissato nel muro e, in ginocchio davanti a questa medaglia, cominciammo a pregare. I prigionieri pregarono con noi, per quel tanto che sapevano pregare. Se non altro erano in ginocchio. Dopo il Rosario, Giacinta tornò verso la finestra per piangere: «Giacinta! Allora tu non vuoi offrire questo sacrificio a Nostro Signore?» le chiesi. «Si, lo voglio, ma penso alla mamma e piango senza volerlo».
Allora, poiché la Santissima Vergine ci aveva detto di offrire anche le nostre preghiere ed i nostri sacrifici in riparazione dei peccati commessi contro il suo Cuore Immacolato, pensammo tra di noi di offrirli ognuno secondo un'intenzione: uno li avrebbe offerti per i peccatori, il secondo per il Santo Padre e l'altro in riparazione dei peccati contro il Cuore Immacolato di Maria. Fatta questa riflessione io dissi a Giacinta di scegliere per quale intenzione ella volesse offrire: «Io offro per tutte le intenzioni, perché le amo tutte».

Tra i prigionieri ve n'era uno che suonava l'armonica. Cominciarono dunque a suonare e a cantare per distrarci. Ci chiesero se sapessimo ballare. Rispondemmo che conoscevamo il fandango e il vira (due danze tradizionali). Giacinta fu allora la compagna di un povero ladro che, vedendola così piccola, danzò portandola tra le braccia. Che Nostra Signora abbia avuto compassione della sua anima e lo abbia convertito!
Durante la prigionia ciò che mi fu più doloroso e che fece soffrire me e i miei cugini fu l'abbandono completo da parte della famiglia. Al ritorno da questa prigionia, che a quanto mi pare ebbe luogo il 15 agosto, (in realtà l'apparizione ebbe luogo il 19 agosto n.d.r.) come premio del mio arrivo a casa mi comandarono immediatamente di far uscire il gregge e di condurlo al pascolo. I miei zii vollero restare con Giacinta in casa e perciò mandarono, al suo posto, il fratello Giovanni. Siccome era già tardi, restammo vicino al nostro sito, ai Valinhos. Sentendo che qualcosa di soprannaturale si avvicinava e ci avvolgeva, sospettando che la Madonna stesse per apparirci e rincrescendoci che Giacinta non ci fosse a vederLa, chiedemmo a Giovanni che l'andasse a chiamare. Siccome lui non voleva, gli offrii due soldi e lui corse a chiamarla. Nel frattempo vidi, con Francesco, il riflesso della luce che noi chiamavamo lampo e, arrivata Giacinta un istante dopo, vedemmo la Madonna sopra il leccio.

«Cosa volete da me?» «Voglio che continuiate ad andare alla Cova d'Iria il 13 e che continuiate a dire il Rosario tutti i giorni. Nell'ultimo mese farò il miracolo, affinché tutti credano». «Che cosa desiderate si faccia del denaro e delle altre offerte che il popolo lascia alla Cova d'Iria?» «Si facciano due portantine; una la porterai tu, Giacinta e altre due bambine, l'altra la porterà Francesco e tre altri bambini della stessa età, rivestiti pur essi di mantello bianco. Il resto del denaro è per la festa della Madonna del Rosario». «Vorrei chiederVi la guarigione di alcuni malati». «Si, alcuni li guarirò durante l'anno», disse la Vergine, e prendendo un aspetto molto triste aggiunse: «Badate che molte anime vanno all'Inferno perché non c'è chi si sacrifichi e preghi per loro: pregate, pregate molto e fate sacrifici per i peccatori».
E, come al solito, cominciò ad elevarsi in direzione dell'oriente. Da quel giorno, così come ci aveva chiesto la Santa Vergine, decidemmo di impegnarci a fare sacrifici per i peccatori.

Giacinta disse: «E i sacrifici come li dobbiamo fare?». Francesco scoprì subito un buon sacrificio: «Diamo le nostre provviste alle pecore e facciamo il sacrificio di non far merenda». Dopo qualche minuto tutte le nostre provviste erano distribuite al gregge e noi trascorremmo così un giorno di digiuno come il più austero dei certosini. I ragazzi di due famiglie di Moita andavano a mendicare di porta in porta. Noi li avevamo incontrati un giorno, mentre conducevamo le nostre greggi. Giacinta, vedendoli, disse: «Diamo le nostre provviste a questi bambini poveri per la conversione dei peccatori». E corse a portarli ad essi. Quando pensavamo oppure avevamo qualche prova da sopportare, Giacinta domandava sempre: «Hai già detto a Gesù che è per amore verso di Lui?». Se le rispondevo di no diceva: «Allora io stessa glielo dirò». E, unendo le sue piccole mani, alzava gli occhi al cielo e diceva: «O Gesù, è per amore verso di Voi e per la conversione dei peccatori».

Il 13 settembre 1917, avvicinandosi l'ora, mi incamminai con Giacinta e Francesco in mezzo a molta gente, che con difficoltà ci lasciava avanzare. Le strade erano affollate di gente. Tutti ci volevano vedere e parlare. Là non c'era rispetto umano. Numerose persone, persino signore e signori, riuscendo a rompere la folla che si stringeva intorno a noi, venivano a gettarsi in ginocchio davanti a noi chiedendoci di presentare alla Madonna le loro necessità. Altri, non riuscendo ad arrivare vicino a noi, gridavano da lontano: «Per amor di Dio, chiedete alla Madonna che guarisca mio figlio, che è un povero sciancato»; un altro: «Che guarisca mio figlio, che è cieco!»; un altro: «Il mio, che è sordo; che riporti a casa mio marito, mio figlio che è in guerra; che mi converta un peccatore; che mi dia salute, perché sono tubercoloso, ecc... ecc...».
Là si vedevano tutte le miserie della povera umanità, alcuni gridavano perfino da sopra gli alberi e i muri dove salivano per vederci passare.
Adesso, quando leggo nel Nuovo Testamento quelle scene incantevoli del passaggio di Gesù nella Palestina, mi ricordo di queste a cui il Signore, benché ancor così bambina, mi fece assistere.

Arrivammo finalmente alla Cova d'Iria, presso il leccio, e cominciammo a recitare il Rosario insieme alla gente. Poco dopo vedemmo il riflesso della luce e subito dopo la Madonna sopra il leccio: «Continuate a recitare il Rosario per ottenere la fine della guerra. In ottobre verranno anche il Signore, la Madonna Addolorata, la Madonna del Carmine e San Giuseppe col Bambino Gesù, per benedire il mondo. Dio è contento dei vostri sacrifici, ma non vuole che dormiate con la corda. Portatela soltanto di giorno». «Mi hanno pregato di chiederVi molte cose: la guarigione di alcuni malati, di un sordomuto». «Si, qualcuno lo guarirò. Altri no. In ottobre farò il miracolo affinché tutti credano» -. E, cominciando ad elevarsi, sparì come le altre volte.

Ci impegnammo tanto a fare sacrifici per i peccatori che non ci lasciavamo sfuggire la più piccola occasione. Specie Giacinta sembrava insaziabile nella pratica del sacrificio. Un giorno un vicino ci offrì un buon pascolo per il nostro gregge, ma che si trovava assai lontano, e noi eravamo in piena estate. Mia madre accettò l'offerta fatta con tanta generosità e ci mandò lì. La giornata era bella, ma il sole ardente sembrava voler bruciare tutto. La sete si faceva sentire e non c'era una goccia d'acqua da bere! All'inizio offrimmo quel sacrificio con generosità per la conversione dei peccatori, ma passato il mezzogiorno non si resisteva più. Feci allora ai miei compagni la proposta di andare in un luogo vicino a chiedere un po' d'acqua. Accettarono, e me ne andai perciò a battere alla porta di una vecchietta che, nel darmi la brocca dell'acqua, mi diede anche un tozzo di pane che accettai con riconoscenza e corsi a dividere con i miei compagni. Poi diedi la brocca a Francesco e gli dissi che bevesse: «Non voglio bere», rispose. «Perché?» «Voglio soffrire per la conversione dei peccatori».
«Bevi tu Giacinta». «Anch'io voglio offrire un sacrificio per i peccatori». Versai allora l'acqua dentro la cavità di una pietra, perché potessero berla le pecore, e andai a rendere la brocca alla sua proprietaria.

Avevamo pure l'abitudine, ogni tanto, di offrire al Signore il sacrificio di fare una novena, o un mese intero senza bere. Facemmo una volta questo sacrificio in pieno agosto, quando il caldo era soffocante.

Un'altra volta mia zia venne a chiamarci per farci mangiare dei fichi portati a casa e che davvero facevano venire l'acquolina in bocca. Giacinta si sedette con noi, soddisfatta, vicina al cesto, e afferrò il primo fico per mangiarselo, ma improvvisamente si ricordò e disse: «E' vero! Oggi non abbiamo ancora fatto nessun sacrificio per i peccatori! Dobbiamo fare questo!». Mise il fico nel cesto, fece l'offerta, e non toccammo più quei fichi.

Un giorno eravamo andati in un luogo pieno di lecci e di querce. Le ghiande erano ancora discretamente verdi, pertanto dissi a Giacinta che potevamo mangiarne. Francesco salì su un leccio per coglierne e riempire le sue tasche, ma Giacinta pensò subito che potevamo cogliere le ghiande delle querce, per fare il sacrificio di mangiare quelle più amare. E quel giorno abbiamo gustato questi cibi deliziosi. Giacinta ne fece uno dei suoi sacrifici abituali: ella era solita infatti cogliere le ghiande sulle querce o le olive sugli olivi. Le dissi un giorno: «Giacinta, non mangiare quelle: sono troppo amare». «E' proprio perché sono amare che le mangio, per convertire i peccatori». Non erano solo quelli i nostri digiuni. Noi avevamo deciso di dare sempre la nostra colazione ai piccoli mendicanti di Moita, tutte le volte che li incontravamo. E i poveri ragazzi, tutti felici della nostra elemosina, cercavano di rincontrarci e ci attendevano per la strada. Ogni volta che li vedevamo Giacinta correva a portar loro il nostro cibo del giorno, con tanta soddisfazione, come se a lei non venisse poi a mancare.

Un giorno andavamo con le nostre pecorelle per un sentiero sul quale trovai un pezzo di corda. La raccolsi e, per scherzo, l'annodai ad un braccio. Ben presto notai che la corda mi faceva male. Dissi allora ai miei cugini: «Guardate! Questa corda mi fa soffrire! Potremmo legarla alla cinta e offrire questo sacrificio a Dio». Quei poveri bambini accettarono subito l'idea e subito la dividemmo fra noi tre. Il nostro coltello fu lo spigolo di una pietra battuta su un'altra. Sia per la grossezza e l'asprezza della corda, sia perché alle volte la stringevamo troppo, questo strumento alle volte ci faceva soffrire orribilmente. Giacinta qualche volta lasciava cadere alcune lacrime e quando io, certe volte, le dicevo di toglierla rispondeva: «No! Voglio offrire questo sacrificio al Signore in riparazione e per la conversione dei peccatori».

Il 13 ottobre 1917 uscimmo di casa prestissimo, prevedendo già i ritardi del cammino. C'era una gran folla e la pioggia cadeva torrenziale. Mia madre, temendo che fosse quello l'ultimo giorno della mia vita, col cuore spezzato dall'incertezza per quanto sarebbe successo, volle accompagnarmi. Lungo il cammino, le scene del mese precedente, più numerose e commoventi. Neppure la fanghiglia dei sentieri impediva a quella gente di inginocchiarsi nell'attitudine più umile e supplicante. Arrivati alla Cova d'Iria, presso il leccio, spinta da un istinto interiore dissi alla gente di chiudere gli ombrelli prima di recitare il Rosario. Poco dopo, vedemmo il riflesso di luce e subito dopo la Madonna sopra il leccio.
«Cosa volete da me?» «Voglio dirti che facciano qui una cappella in mio onore, che sono la Madonna del Rosario, che continuino sempre a dire il Rosario tutti i giorni. La guerra finirà e i soldati torneranno presto alle loro case». «Io avrei molte cose da chiederVi: se curate dei malati e se convertite alcuni peccatori». «Alcuni si, altri no. Devono emendarsi, chiedano perdono dei loro peccati». E prendendo un aspetto più triste: «Non offendano più Dio Nostro Signore, che è già tanto offeso». E aprendo le mani le fece riflettere nel sole; e, mentre si elevava, il riflesso della Sua stessa luce continuava a proiettarsi nel sole. Ecco perché gridai che guardassero il sole. Il mio intento non era di chiamare l'attenzione della gente su quello, visto che non avevo neppur coscienza della sua presenza. Lo feci soltanto mossa da un'ispirazione interiore che a ciò mi spinse.

Sparita la Madonna, nell'immensità del firmamento, vedemmo accanto al sole San Giuseppe col Bambino e la Madonna, vestita di bianco, col manto azzurro. San Giuseppe e il Bambino sembravano benedire il mondo, con certi gesti in forma di croce che facevano con la mano. Poco dopo, svanita questa apparizione, vidi il Signore e la Madonna, che mi pareva la Madonna Addolorata. Il Signore sembrava benedire il mondo, nello stesso modo di San Giuseppe. Svanì questa visione e mi parve di vedere di nuovo la Madonna, con aspetto simile a quello della Madonna del Carmine.

Ecco la storia delle apparizioni della Madonna alla Cova d'Iria. Dice ancora Lucia: "Di queste apparizioni, le parole che più si impressero nel mio cuore, fu la richiesta della Madonna: «Non offendano più Nostro Signore che già tanto offeso!». Che lamento amoroso e che tenera richiesta! Oh, se potesse echeggiare in tutto il mondo e se tutti i figli della Mamma Celeste ascoltassero il suono della sua voce!”.

 

LUCIA RACCONTA LA VITA DEI PASTORELLI DOPO LE APPARIZIONI

GIACINTA

Comincerò a scrivere quanto il buon Dio mi vorrà far ricordare di Giacinta. Aveva un aspetto sempre serio, modesto e amabile, che sembrava rivelare la presenza di Dio in ogni suo atto, come proprio di persone già anziane e di grande virtù. Non le ho mai visto quella eccessiva leggerezza o entusiasmo, proprio dei bambini, per gli ornamenti e i divertimenti. Questo dopo le apparizioni, perché prima era il numero uno dell'entusiasmo e dei capricci.
Aveva per il ballo un'affezione speciale e molta arte: le bastava alle volte sentire un qualsiasi strumento suonato dai pastori per cominciare subito a ballare, anche da sola. Dopo le apparizioni, quando si avvicinò il Carnevale, mi disse: «Io adesso non ballo più». «E perché?» «Perché voglio offrire questo sacrificio al Signore». E siccome eravamo noi quelli che guidavamo la festa fra i bambini, finirono i balli che erano soliti farsi in quelle occasioni.

Un giorno mia madre, d'accordo con mia zia, decise di vendere il gregge e di mandarci a scuola. A Giacinta piaceva andare, durante gli intervalli, a visitare il Santissimo, però diceva: «Sembra che indovinino. Appena io entro in chiesa c'è subito tanta gente a far domande! A me piacerebbe tanto poter restare tanto tempo da sola, a parlare con Gesù nascosto, ma non ci lasciano mai!».

Era tanto cara al Cuore della Madonna che qualunque grazia chiedeva la otteneva.
Un giorno c'incontrò una povera donna e, piangendo, si inginocchiò davanti a Giacinta chiedendole di ottenere dalla Madonna la guarigione da una malattia terribile. Giacinta, vedendo inginocchiata davanti a lei una donna afflitta, le afferrò le mani tremule per rialzarla. Però, vedendo che non ci riusciva, si inginocchiò anche lei e recitò tre Ave Maria con quella donna. Poi le chiese di alzarsi che la Madonna l'avrebbe guarita. E non smise più di pregare ogni giorno per lei, finché, dopo un po' di tempo, quella non riapparve per ringraziare la Madonna della guarigione.

Un'altra volta c'era un soldato che piangeva come un bambino. Aveva ricevuto l'ordine di partire per la guerra e lasciava a casa sua moglie a letto, malata, e tre figlioletti. Domandava o la guarigione della moglie o l'annullamento dell'ordine. Giacinta l'invitò a dire il Rosario con lei. Poi gli disse: «Non pianga più. La Madonna è così buona! Certamente le farà la grazia che domanda!». E non dimenticò più il suo soldato. Alla fine del Rosario diceva sempre un'Ave Maria per il suo soldato. Alcuni mesi dopo, lui riapparve, con sua moglie e i suoi tre figlioletti, per ringraziare la Madonna delle due grazie ricevute. A causa d'una febbre che l'aveva colpito il giorno prima di partire era stato esonerato dal servizio militare e sua moglie, diceva lui, era guarita per un miracolo della Madonna.

L'altra grazia la ricevette mia zia Vittoria, che aveva un figlio che da tempo aveva lasciato la casa paterna e nessuno ne sapeva più niente. Preoccupata, la zia venne un giorno ad Aljustrel per chiedermi di pregare la Madonna per quel suo figlio. Non trovando me, fece la domanda a Giacinta che promise di pregare per lui. Alcuni giorni dopo il figlio ricomparve in casa, a chiedere perdono ai genitori; poi andò ad Aljustrel a raccontare la sua sventurata vita e disse che, dopo aver speso quanto aveva rubato in casa, aveva girovagato vario tempo, vagabondo, fino a che, non so per qual motivo, fu messo in prigione a Torres Novas. Qualche tempo dopo, una notte riuscì ad evadere e, fuggiasco, nelle tenebre, si lanciò tra montagne e pinete sconosciute. Credendosi completamente perduto, nel terrore di essere arrestato di nuovo e nell'oscurità della notte, si trovò con l'unica risorsa della preghiera: cadde in ginocchio e cominciò a pregare. Dopo alcuni minuti gli apparve Giacinta, lo prese per mano e lo condusse alla strada provinciale che va da Alqueidao a Reguengo, facendogli segno che continuasse per quella. Al mattino, si trovò sul sentiero di Boleiros, riconobbe il luogo e, commosso, si diresse alla casa paterna.
Io domandai a Giacinta se era vero che fosse andata da lui. Mi rispose di no: che non sapeva neppure dove fossero quelle pinete e montagne in cui il ragazzo si era perso. «Io ho soltanto pregato e supplicato la Madonna per lui, per compassione della zia Vittoria». «E allora come è successo tutto questo?» le chiesi. «Non lo so, lo sa il Signore».

Passavano così i giorni di Giacinta.
Il 23 dicembre 1918 la febbre spagnola fece mettere Giacinta a letto malata insieme con il suo fratellino. Poco prima di ammalarsi mi diceva: «Mi fa tanto male la testa e ho tanta sete! Ma non voglio bere, per soffrire per i peccatori». Durante la malattia dei miei due cuginetti ogni momento che mi restava libero dalla scuola e da qualcosetta che mi facevano fare, correvo da loro. Un giorno, mentre passavo per andare a scuola, Giacinta mi disse: «Senti, dì a Gesù nascosto che Gli voglio molto bene e che Lo amo tanto». Altre volte diceva: «Dì a Gesù che Gli mando tanti saluti». Quando andavo prima nella sua stanzetta diceva: «Adesso và da Francesco, io faccio il sacrificio di stare qui da sola».

Un giorno la sua mamma le portò una tazza di latte e le disse di prenderla. «Non lo voglio mamma» rispose, allontanando la tazza con la manina. Mia zia insistette un po', ma poi si ritirò dicendo: «Non so come convincerla a prendere qualcosa, con tanta nausea!». Appena restammo sole le domandai: «Come mai disobbedisci così alla tua mamma e non offri questo sacrificio al Signore?». A queste parole lasciò cadere alcune lacrime, che io ebbi la felicità di asciugare, e disse: «Questa volta non me ne sono ricordata!».
Chiamò la mamma, le chiese perdono e le disse che avrebbe preso quanto lei voleva. La mamma le portò la tazza di latte. Lo bevve senza mostrare la minima ripugnanza. Poi mi disse: «Se sapessi quanto mi è costato prenderlo!».

Dopo qualche giorno mi disse: «Mi costa sempre di più prendere il latte e i brodini, ma non dico niente. Bevo tutto per amore del Signore e del Cuore Immacolato di Maria nostra buona Mamma Celeste».
Una volta le chiesi: «Stai meglio?» «Lo sai già che non sto meglio, ho tanto dolore al petto! Ma non dico niente, soffro per la conversione dei peccatori».

Un giorno mi fece chiamare perché corressi in fretta da lei. Ci andai di corsa e mi disse: «La Madonna è venuta a vederci, dice che verrà molto presto a prendere Francesco per portarlo in Cielo. E a me chiese se volevo ancora convertire altri peccatori. Le dissi di si. Mi disse che andrò in ospedale, che là soffrirò molto. Che soffrissi per la conversione dei peccatori, in riparazione dei peccati contro il Cuore Immacolato di Maria e per amore di Gesù. Le domandai se tu verrai con me. Disse di no. E' questo che mi costa di più. Disse che la mamma mi porterà in ospedale, ma poi vi resterò da sola!». Rimase qualche tempo pensierosa e poi aggiunse: «Se tu venissi con me! Quel che più mi costa andarci senza di te!».

Quando arrivò il momento per suo fratello di partire per il Cielo, lei gli fece le sue raccomandazioni: «Porta tanti saluti al Signore e alla Madonna, dì Loro che soffrirò tutto quello che vorranno, per convertire i peccatori e riparare le offese fatte al Cuore Immacolato di Maria».
Soffrì molto per la morte del fratello. Restava molto tempo pensierosa e se le chiedevano a cosa pensasse, rispondeva: «A Francesco. Oh, se potessi vederlo!». E le si riempivano gli occhi di lacrime.

Agli inizi del luglio 1919 arrivò pure il giorno di entrare nell'ospedale di Vila Nova dove realmente ebbe tanto da soffrire. Quando la madre andò a visitarla portò anche me. Le domandai allora se soffriva molto: «Soffro si, ma mi piace tanto soffrire per amore del nostro buon Dio, del Cuore Immacolato di Maria, per i peccatori e per il Santo Padre». Questo era il suo ideale, era ciò di cui parlava.

Ritornò ancora per qualche tempo a casa dei genitori verso la fine di agosto del 1919, con una grande ferita aperta nel petto, le cui cure sopportava senza un lamento, senza mostrare il minimo segno di insofferenza. Ciò che più le costava erano le visite frequenti e gli interrogatori della gente che la cercava, e dalla quale ora non poteva più nascondersi. «Offro anche questo sacrificio per i peccatori», diceva con rassegnazione.

Di nuovo la Vergine Santissima si degnò di visitare Giacinta, per annunziarle nuove croci e sacrifici. Me ne diede notizia e diceva: «Mi ha detto che andrò a Lisbona, in un altro ospedale, che non ti rivedrò più e neppure i miei genitori. Che, dopo aver sofferto molto, morirò sola. Ma che non abbia paura, che verrà Lei là a prendermi per portarmi in Cielo». Piangendo mi abbracciava e diceva: «Non ti rivedrò mai più. Là tu non mi verrai a trovare. Senti! Prega molto per me che morirò sola». «Non ci pensare» le dissi. «Lascia che ci pensi, perché più ci penso e più soffro, e io voglio soffrire per amore del Signore e per i peccatori. E poi non me ne importa niente! La Madonna viene là a prendermi per portarmi in Cielo!».

Mi domandava certe volte: «Morirò dunque senza ricevere Gesù nascosto? Se me lo portasse la Madonna, quando mi verrà a prendere!»
Quando sua madre si mostrava triste, al vederla così malata, le diceva: «Non essere triste, mamma, vado in Cielo. Lassù pregherò molto per te». Altre volte diceva: «Non piangere, io sto bene». Se le domandavano se avesse bisogno di qualcosa rispondeva: «Grazie davvero, non ho bisogno di niente». Quando si ritiravano diceva: «Ho molta sete, ma non voglio bere, l'offro a Gesù per i peccatori».

Arrivò finalmente il giorno di partire per Lisbona, il 21 gennaio 1920. Al momento dell'addio, spezzava il cuore. Rimase molto tempo avvinghiata al mio collo e diceva piangendo: «Non ci rivedremo mai più! Prega molto per me, fino a quando me ne andrò in Cielo. Là poi, io pregherò molto per te. Non dire mai il segreto a nessuno, neppure se ti ammazzano. Ama molto Gesù e il Cuore Immacolato di Maria e fa molti sacrifici per i peccatori».

Da Lisbona mi mandò a dire che la Madonna era già andata a vederla e che le aveva detto che sarebbe morta il 20 febbraio alle 22,30; mi raccomandava di essere molto buona.
Questo è ciò che ricordo della vita di Giacinta. Chiedo al nostro buon Dio che si degni di accettare questo scritto, per accendere nelle anime la fiamma dell'amore ai Cuori di Gesù e di Maria.

FRANCESCO

L'amicizia che mi univa a Francesco era appena quella di parentela e quella che le grazie, che il Cielo si degnava concederci, portavano con sè.

Francesco non sembrava fratello di Giacinta, se non nelle fattezze del viso e nella pratica delle virtù. Non era capriccioso e vivo come lei. Al contrario, era di carattere pacifico e condiscendente.
Quando nei nostri giochi qualcuno si ostinava a negargli i suoi diritti di vincitore, lui cedeva senza resistere, limitandosi a dire soltanto: «Credi di aver vinto tu? E va bene! A me non m'importa!».

Sempre sorridente, sempre gentile e condiscendente, giocava con tutti i bambini, senza distinzioni. Non rimproverava nessuno. Soltanto certe volte si ritirava quando vedeva non andar bene qualcosa.

Dopo le apparizioni della Madonna diventò sempre più amante della solitudine. La prima apparizione ci lasciò una pace e un'allegria espansiva che non c'impediva di parlare di quel che era avvenuto. A Francesco, che non aveva udito, raccontammo quello che la Madonna ci aveva comunicato, compresa la promessa di portarlo in Cielo se avesse recitato molti Rosari. Da quel giorno prese l'abitudine di allontanarsi da noi, come per passeggiare. E se lo chiamavo e gli domandavo cosa stesse facendo, alzava la mano e mostrava la Corona. Se gli dicevo di venire a giocare, che avrebbe poi pregato con noi, rispondeva: «Prego anche dopo. Non ti ricordi che la Madonna ha detto di recitare molti Rosari?!».

Pregò tanto anche quando fummo condotti in carcere. Durante tutto il tempo si mostrò abbastanza animato e cercava di rasserenare Giacinta nelle ore di maggior nostalgia. Quando recitammo il Rosario lui vide che uno dei carcerati stava in ginocchio con il basco in testa; gli si avvicinò e gli disse: «Lei, se vuole pregare, deve togliere il basco». E il povero uomo immediatamente glielo diede e lui lo mise sopra il suo cappuccio, su uno sgabello.

Mentre interrogavano Giacinta lui mi diceva, con immensa pace ed allegria: «Se ci ammazzano, come dicono, fra poco saremo in Cielo! Che bello! Non m'importa di niente». Dopo un momento di silenzio: «Dio voglia che Giacinta non abbia paura. Dirò un'Ave Maria per lei».

Dimostrò sempre una maturità molto maggiore della sua età. Un giorno, passando con lui e Giacinta vicino alla casa della madrina Teresa, questa ci chiamò e si mise a farci festa. Gli altri bambini cominciarono a riunirsi e la madrina, dopo averci offerto varie cose, volle vederci ballare e cantare. Al suono dell'animato coro i vicini si riunirono intorno a noi e alla fine chiesero il bis.
Ma Francesco mi si avvicinò e disse: «Non cantiamo più. Al Signore certamente non piace che adesso cantiamo queste cose». E così ce ne scappammo via, come potemmo, da quella turba di ragazzi, verso il nostro pozzo prediletto.

Giunse il Carnevale del 1918. I bambini dai 14 anni in giù avevano la loro festa a parte. Naturalmente vennero in parecchi ad invitarmi per organizzare la festa con loro. All'inizio rifiutai, ma vinta da vile condiscendenza, cedetti alle insistenze di alcuni. Arrivata presso Giacinta e Francesco dissi quanto era successo. «E tu torni a queste cene e divertimenti?», mi chiese serio Francesco. «Ti sei già dimenticata che abbiamo promesso di non tornarvi più?» «Io non volevo, ma vedi bene che non mi lasciano, insistono che vada: non so come fare!» «Sai come devi fare? Tutti sanno che la Madonna ti è apparsa. Perciò tu dici che Le hai promesso di non ballare mai più, e che per questo, non ci vai! Poi, quel giorno, scappiamo nella grotta del Cabeço. Là nessuno ci trova».
Accettai l'idea; saputa la mia decisione nessuno pensò più a organizzare l'assemblea. Dio ci benediva. E quelle amiche, che prima mi cercavano per divertirsi, ora mi seguivano e mi cercavano in casa, la domenica pomeriggio, perché andassi con loro a recitare il Rosario nella Cova d'Iria.

Francesco era di poche parole; per fare le sue preghiere e offrire i suoi sacrifici gli piaceva nascondersi perfino da Giacinta e da me. Non poche volte lo sorprendevamo dietro un muro o una siepe, dove furtivamente si era nascosto, in ginocchio, per pregare o per pensare, come diceva lui, al Signore, triste per causa di tanti peccati.
Una volta gli chiesi: «Francesco, a te cosa piace di più, consolare il Signore o convertire i peccatori perché non vadano più anime all'Inferno?» «Mi piace di più consolare il Signore. Non hai notato come la Madonna, anche nell'ultimo mese, diventò così triste quando disse di non offendere più il Signore Dio che è già tanto offeso? Io vorrei consolare il Signore e poi convertire i peccatori, affinché non l'offendano più».

Quando andava a scuola, arrivando a Fatima, qualche volta mi diceva: «Senti, tu va a scuola. Io resto qui, in chiesa, vicino a Gesù nascosto. Per me non vale la pena di imparare a leggere, fra poco vado in Cielo. Quando torni, vieni a chiamarmi».
Un giorno, uscendo di casa, notai che Francesco andava molto piano.
«Cos'hai? Sembra che non riesci a camminare!» «Mi fa molto male la testa, e mi sembra di star per cadere». «Allora non venire, resta a casa». «No. preferisco restare in chiesa con Gesù nascosto, mentre tu vai a scuola».

Con la sua preghiera ottenne tante grazie da Gesù. Ne racconto qualcuna: prima della sua malattia, un giorno uscii di casa e incontrai mia sorella Teresa; veniva in nome di un'altra donna di una frazione vicina a cui avevano arrestato un figlio sotto l'accusa di non so quale delitto; se non avesse dimostrato la sua innocenza sarebbe stato condannato all'esilio, o per lo meno a un buon numero di anni di prigione. Mi chiedeva dunque con insistenza che le ottenessi questa grazia dalla Madonna. Ricevuto il messaggio andai a scuola; durante il cammino raccontai ai cugini il fatto. Arrivati a Fatima Francesco disse: «Senti, mentre tu vai a scuola, io resto con Gesù nascosto e Gli chiedo la grazia». Uscendo di scuola lo chiamai e gli dissi: «Hai chiesto quella grazia al Signore?» «Si, dì alla tua Teresa che fra pochi giorni lui tornerà a casa». Difatti di lì a pochi giorni il povero giovane tornava a casa e, il 13, veniva con tutta la famiglia a ringraziare la Madonna della grazia ricevuta.

C'era pure una donna di Alqueidao, che voleva la guarigione di un malato e la conversione di un peccatore. Francesco disse: «Per questa donna prego io, voi pregate per gli altri, che sono molti». Quella donna comparve poco dopo la morte di Francesco; mi chiese quale era la sua tomba perché voleva andare lì per ringraziarlo delle due grazie ricevute.

Un giorno una povera donna e un giovanotto (erano madre e figlio) andarono a inginocchiarsi davanti a Francesco per chiedergli che ottenesse dalla Madonna la guarigione del papà e per lui la grazia di non andare in guerra: Francesco si inginocchiò anche lui, tolse il cappuccio e chiese se volevano recitare con lui il Rosario. Dissero di si e cominciarono a pregare. Dopo ci accompagnarono alla Cova d'Iria. Lungo il cammino dissero con noi un altro Rosario e lì, sul luogo, un altro e si congedarono soddisfatti. La povera donna promise di tornare a ringraziare la Madonna per le grazie chieste, se le avesse ricevute. E tornò difatti varie volte, non solo col figlio ma anche col marito già in buona salute.

Il 23 dicembre 1918 Francesco si ammalò insieme a Giacinta di febbre spagnola, che lo portò alla morte in pochi mesi.
Durante la malattia si mostrò sempre allegro e contento. Alle volte gli domandavo: «Francesco, soffri molto?» «Abbastanza, ma non fa niente. Soffro per consolare il Signore e poi, fra poco vado in Cielo!».
Mi diceva alle volte, quando passavo da lui nell'andare a scuola: «Senti, và in chiesa e dà tanti saluti per me a Gesù nascosto. Quel che mi rincresce di più non poter stare qualche minuto con Gesù nascosto».
Un'altra volta gli chiesi: «Francesco, ti senti molto male?» «Si, ma soffro per consolare il Signore».

Entrando un giorno con Giacinta nella sua stanzetta, ci disse:
«Oggi parlate poco perché mi fa tanto male la testa». «Non ti dimenticare di offrire tutto per i peccatori», gli disse Giacinta. «Si, ma prima offro per consolare il Signore e la Madonna e poi dopo offro per i peccatori e per il Santo Padre».

Un altro giorno lo trovai molto contento. «Stai meglio?» «No, mi sento molto peggio. Ormai mi manca poco per andare in Cielo. Lassù consolerò molto il Signore e la Madonna. Giacinta pregherà molto per i peccatori, per il Santo Padre e per te; e tu resti quaggiù perché la Madonna lo vuole. Senti, fà tutto quello che Lei ti dirà».
Mentre Giacinta sembrava preoccupata dall'unico pensiero di convertire peccatori e liberare anime dall'Inferno, Francesco sembrava che pensasse soltanto a consolare il Signore e la Madonna che gli erano parsi tanto tristi.

Un giorno entrò nella stanza di Francesco una donna di Casa Velha, chiamata Marianna, che, addolorata perché il marito aveva espulso un figlio di casa, chiedeva la grazia della riconciliazione del figlio col padre. Francesco rispose: «Stia tranquilla. Io andrò presto in Cielo e quando arriverò lassù chiederò questa grazia alla Madonna». Non ricordo bene quanti giorni aspettò ancora per andare in Cielo; ricordo soltanto che la sera del giorno in cui Francesco morì, il figlio chiese definitivamente perdono al padre, che prima glielo aveva negato perché quello non si assoggettava alle condizioni imposte. Si sottomise a tutto quel che il padre gli imponeva e la pace fu ristabilita in quella casa.

Pochi giorni prima di morire mi disse: «Senti, sto molto male, ormai mi manca poco per andare in Cielo». Una mattina presto sua sorella Teresa venne a chiamarmi: «Vieni! Francesco sta molto male e dice che vuol dirti una cosa». Mi vestii in fretta e andai da lui. Chiese alla madre e ai fratelli che uscissero perché era un segreto quel che voleva dirmi. Uscirono e lui mi disse: «Sto per confessarmi, per far la Comunione e poi morire. Vorrei che mi dicessi se mi hai visto fare qualche peccato, e che andassi a chiedere a Giacinta se lei pure mi ha visto farne». «Hai disubbidito qualche volta alla mamma - gli risposi - quando lei ti diceva di stare in casa e tu invece scappavi per venire da me o per nasconderti». «E' vero, quel peccato ce l'ho. Adesso va a domandare a Giacinta se ne ricorda qualche altro». Ci andai e Giacinta, dopo aver pensato un po', rispose: «Guarda, digli che, ancor prima che la Madonna ci apparisse, rubò un soldo a papà per comprare un organetto a Giuseppe Marto di Casa Velha, e che quando i ragazzi di Aljustrel tiravano sassi a quelli di Boleiros anche lui ne tirò qualcuno!».
Quando gli diedi la risposta della sorella rispose: «Quelli li ho confessati, ma li confesso di nuovo. Magari è a causa di questi peccati che il Signore è tanto triste. Ora sono pentito». Lo lasciai e andai alle mie occupazioni.

Quando tornai, sul far della sera, lui sprizzava di gioia. Si era confessato e il parroco gli aveva promesso di portargli la Santa Comunione il giorno dopo.
Dopo aver ricevuto la Comunione, l'indomani, diceva alla sorellina: «Oggi son più felice di te, perché ho Gesù nascosto nel mio cuore». Passai quella giornata quasi tutta presso il suo letto, con Giacinta. Siccome non riusciva più a pregare, ci chiese di recitare noi il Rosario per lui. Già a notte fatta lo salutai: «Francesco, ciao. Se vai in Cielo questa notte non dimenticarti di me lassù, hai capito?» «Non ti dimentico, no, stai tranquilla». E afferrandomi la destra me la strinse con forza per un bel pezzo, guardandomi con le lacrime agli occhi. «Vuoi ancora qualcosa?», gli domandai con le lacrime che mi correvano giù per le guance. «No», rispose con voce fioca. «Allora ciao, Francesco! Arrivederci in Cielo. Addio, in Cielo!»...
E il Cielo si avvicinava. Volò lassù il giorno dopo, venerdì 4 aprile 1919, nelle braccia della Mamma Celeste.

LUCIA

Mia madre, dopo le apparizioni, si vide forzata a vendere il nostro gregge, perché tanta gente chiedeva sempre di vedermi e di parlarmi. Ciò non fu una piccola perdita per il mantenimento della famiglia. Di tutto questo la colpa era mia e tutti me la gettavano in faccia nei momenti critici. Spero che il nostro buon Dio avrà accettato tutto, visto che io Glielo ho offerto sempre contenta di potermi sacrificare per Lui e per i peccatori. Da parte sua, mia madre, se mi rimproverava e castigava era perché mi credeva bugiarda.

Nella mia famiglia c'era un altro dispiacere di cui io avevo la colpa, dicevano. La Cova d'Iria era un terreno che apparteneva ai miei genitori. Nel fondo c'era un po' di terra abbastanza fertile nella quale si piantava buon granturco, legumi, verdura, ecc. Però, da quando la gente cominciò ad andarci, non potemmo più coltivarci niente. La gente pestava tutto. Mia madre, lamentando questa perdita, mi diceva: «Tu adesso dovresti mangiare quello che si coltiva nella Cova d'Iria!». Queste cose mi addoloravano tanto che non avevo il coraggio di prendere un pezzo di pane per mangiare. Mia madre, per obbligarmi a dire che le apparizioni della Madonna erano tutte mie invenzioni, arrivò non poche volte a farmi sentire il peso di qualche bastone destinato al fuoco, che trovava nel mucchio della legna, oppure del manico della scopa.

Un giorno mia madre cadde gravemente ammalata, a tal punto che un giorno la credemmo agonizzante. Si riunirono allora tutti i figli intorno al suo letto, per ricevere la sua ultima benedizione. Essendo la più giovane io fui l'ultima. La povera mamma, vedendomi, si rianimò un po' e mi gettò le braccia al collo. Mia sorella, la più grande, mi strappò dalle sue braccia a forza e portandomi in cucina, mi proibì di ritornare dall'ammalata e concluse dicendo: «La mamma muore addolorata per i dispiaceri che tu le hai dato!». Mi inginocchiai, appoggiai la testa ad uno sgabello e, con un'amarezza profonda che non avevo ancora provato, offrii al nostro buon Dio il mio sacrificio.
Pochi minuti dopo, vedendo che il caso era disperato, tornarono da me e mi dissero: «Lucia! Se è vero che tu hai visto la Madonna, và ora alla Cova d'Iria, chiediLe che guarisca la mamma. PromettiLe quel che vuoi, che noi lo faremo, e allora ci crederemo». Senza perdere un momento mi misi in cammino. Passai per varie scorciatoie attraverso i campi dicendo il Rosario fin là. Feci alla Madonna la mia supplica, sfogai il mio dolore versando abbondanti lacrime e tornai a casa, confortata dalla speranza che la mia cara Mamma del Cielo avrebbe dato la salute alla mia mamma della terra. Quando tornai a casa, mia madre stava già meglio; tre giorni dopo poteva già fare tutti i lavori domestici.

Nel frattempo, il Sindaco e gli altri uomini di governo che non volevano accettare gli avvenimenti di Fatima, mandarono una notte alcuni uomini in automobile per tagliare il leccio su cui era avvenuta l'apparizione. Al mattino si sparse rapida la notizia del fatto. Corsi subito là per vedere se era vero. Ma quale non fu la mia gioia quando vidi che quei poveri uomini avevano sbagliato e, invece del leccio, avevano portato via una delle querce vicine. Domandai allora perdono alla Madonna per quei poveri uomini e pregai per la loro conversione.

Passati alcuni giorni, un 13 maggio, non ricordo se del 1918 o del 1919, all'alba corse voce che a Fatima c'era una forza di cavalleria per impedire alla gente di andare alla Cova d'Iria. Tutti venivano, mezzi spaventati, a darmi la notizia, dicendo che certamente quello era l'ultimo giorno della mia vita. Senza far caso a quel che mi dicevano, mi incamminai verso la chiesa. Arrivata a Fatima passai tra i cavalli, che occupavano tutto il sagrato, entrai in chiesa, ascoltai la Messa che fu celebrata da un prete sconosciuto, presi la Santa Comunione e, dopo il ringraziamento, tornai pacifica a casa, senza che nessuno mi avesse detto una parola. La sera, nonostante le notizie continue che i soldati si sforzavano di allontanare la gente senza riuscirvi, andai là anch'io a dire il mio Rosario. Per la strada si unì a me un gruppo di donne venute da fuori. Quando già mi avvicinavo al luogo, vennero incontro al nostro gruppo due soldati, sferzando in fretta i cavalli, per raggiungerci. Arrivati presso di noi chiesero dove andavamo. Sentendo la risposta coraggiosa delle donne, che loro non c'entravano, frustarono i cavalli con l'intenzione di venirci addosso. Le donne fuggirono da ogni parte e io, in un attimo, mi trovai sola, davanti ai due cavalieri. Mi chiesero allora il mio nome; lo dissi, senza esitare. Mi domandarono se ero, dunque, la veggente. Dissi di si. Allora mi ordinarono di mettermi nel mezzo della strada e di camminare tra i due cavalli, indicandomi la strada di Fatima. Avvicinandomi al Pantano, una povera donna che lì abitava, vedendomi ad una certa distanza, così tra i cavalli, si gettò in mezzo alla strada e, come una seconda Veronica, cercò di farmi coraggio. I soldati l'obbligarono a tirarsi subito indietro e la povera donna pianse sulla mia disgrazia. Arrivati in un terreno, che si trova un po' prima di rientrare in Aljustrel, vicino ad una piccola sorgente, vedendo là delle buche aperte per piantarvi dei pali, mi fecero fermare e, forse per spaventarmi, dissero: «Ecco delle fosse aperte. Con una delle nostre spade le tagliamo la testa e la lasciamo qui giù sotterrata. Così la finiamo per sempre con questa storia».
Sentendo queste parole credetti che fosse davvero arrivata la mia ultima ora, ma rimasi tranquilla, come se non si trattasse di me. Dopo un momento mi fecero continuare il cammino. Attraversai così il nostro paesino. Venivano tutti alla finestra o sulla porta per vedere cos'era. Qualcuno rideva di scherno, altri compiangevano la mia sorte. Arrivati a casa mia fecero chiamare i miei genitori.
Non c'erano. I soldati mi ordinarono di non uscire più di casa per quel giorno e, balzando in sella, se ne andarono.
Al cader della sera corse voce che i soldati si erano ritirati, vinti dal popolo, e al tramonto io recitavo il mio Rosario alla Cova d'Iria, accompagnata da centinaia di persone.

Mio padre era l'unico che continuava a mostrarsi affettuoso con me e, nelle discussioni che sorgevano contro di me in famiglia, era lui solo che mi difendeva. Era un uomo sano, robusto, che diceva di non sapere cosa fosse un mal di testa. Un giorno, in meno di ventiquattro ore, quasi all'improvviso, una polmonite doppia se lo portò all'eternità. Fu tale il mio dolore che credetti di morirne. «Mio Dio, mio Dio! - esclamavo chiusa nella mia stanza - non ho mai pensato che mi teneste in serbo tanto patimento! Ma soffro per Vostro amore, in riparazione dei peccati commessi contro il Cuore Immacolato di Maria, per il Santo Padre e per la conversione dei peccatori».

In breve tempo il nostro buon Dio portò in Cielo Francesco (4 aprile 1919), il mio caro papà (31 luglio 1919) e permise che fossi separata da Giacinta che partì per l'ospedale di Lisbona il 21 gennaio 1920. Che tristezza provai nel vedermi sola! Appena mi fu possibile mi rifugiai nella caverna della roccia dove ci era apparso l'Angelo, per sfogare, sola con Dio, il mio dolore e spargere con abbondanza le lacrime del mio pianto.

Qualche tempo dopo arrivò la notizia che Giacinta era volata in Cielo. Portarono allora il suo corpo a Vila Nova de Ourem. Mia zia mi portò là, un giorno, presso i resti mortali della sua figlioletta, nella speranza di distrarmi un po'. Ma per lungo tempo la mia tristezza sembrò aumentare sempre più. Quando trovavo il cimitero aperto mi sedevo sulla tomba di Francesco o del mio papà e vi passavo lunghe ore. Grazie a Dio, la sorella di Don Formigao promise a mia madre di ottenere per la mia educazione l'entrata in un collegio che le Suore Dorotee avevano in Spagna. Quando tutto fosse stato pronto sarebbero venuti a prendermi. Con tutto questo mi distrassi un po' e quella grande tristezza svanì a poco a poco.

Fu fissato il giorno della partenza: 16 giugno 1921. La vigilia andai, col cuore oppresso dalla nostalgia, a congedarmi da tutti i nostri terreni, ben sicura che era l'ultima volta che li calpestavo: dal Cabeço, dalla roccia, dai Valinhos, dalla chiesa parrocchiale dove il buon Dio aveva cominciato l'opera della sua misericordia, dal cimitero ove lasciavo i resti mortali del mio caro papà, di Francesco, che non avevo ancora potuto dimenticare.
Senza salutare nessuno, il giorno dopo, alle 2 del mattino, accompagnata dalla mamma e da un povero lavoratore che andava a Leiria, chiamato Manuel Correia, mi misi in cammino, portando inviolato il mio segreto. Passammo per la Cova d'Iria, per un ultimo saluto. Là recitai, per l'ultima volta, il mio Rosario e, finché mi fu possibile scorgere il luogo, mi voltai continuamente indietro, come per dirgli il mio ultimo addio. Arrivammo a Leiria verso le 9 del mattino. M'incontrai con la signora Filomena Miranda, più tardi mia madrina di Cresima, incaricata di accompagnarmi. Il treno partiva alle 2 del pomeriggio, ed eccomi alla stazione, a dare l'abbraccio di addio alla mia povera mamma, lasciandola in lacrime. Il treno partì e con lui il mio povero cuore immerso in un mare di nostalgia e di ricordi che mi era impossibile dimenticare".

* * *

Nel collegio Asilo do Vilar, di Oporto, diretto dalle Suore Dorotee, Lucia sentì la voce del Signore che la chiamava alla vita religiosa e il 2 ottobre 1926 si recò a Tuy, in Spagna, ed entrò nel Noviziato delle stesse Suore Dorotee, col nome di Suor Maria dell'Addolorata.
Il suo antico desiderio di entrare nel Carmelo fu finalmente soddisfatto: il 25 marzo del 1948, Giovedì Santo, giunse il permesso del Sommo Pontefice Pio XII che le concedeva di entrare nel Carmelo di S. Teresa a Coimbra. Prese il nome di Suor Maria del Cuore Immacolato.
Il 10 dicembre 1925 apparve a Lucia la Santissima Vergine che, mettendole la mano sulla spalla, le mostrò nello stesso tempo un cuore coronato di spine che aveva nell'altra mano e le disse: «Guarda figlia mia, il Mio Cuore coronato di spine che gli uomini ingrati m'infiggono con bestemmie ed ingratitudini. Tu, almeno, cerca di consolarmi, ed a tutti quelli che per cinque mesi, nel primo sabato, si confesseranno ricevendo poi la Santa Comunione, diranno il Rosario e Mi faranno 15 minuti di compagnia meditando sui 15 misteri del Rosario con l'intenzione di riparare alle offese fatte al mio Cuore Immacolato, io prometto di assisterli, nell'ora della morte, con tutte le grazie necessarie alla salvezza di quelle anime».
Lucia ha raggiunto in Cielo i due cuginetti il 13 febbraio del 2005 all’età di 95 anni.
Maria continua a servirsi di lei per preparare il mondo al trionfo del suo Cuore Immacolat
o.